Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Aglaya Veterany – Perchè il bambino cuoce nella polenta?

Gen 12, 2009

Aglaya Veteranyi
‘Perché il bambino cuoce nella polenta‘ – romanzo; Luciana Tufani Edizioni. “Dio parla lingue straniere? Può capire gli stranieri? Oppure gli angeli siedono in cabine di cristallo e traducono?”

La favola del bambino che cuoce nella polenta viene raccontata alla piccola protagonista di questo romanzo per esorcizzare la sua paura più grande, per sostituire ogni volta che il terrore dilaga il suo incubo più minaccioso con uno ancora più spaventoso. E cosa può temere una bambina che con la sua famiglia vive una vita piena di avventure e di emozioni all’interno di un circo? Forse che la madre durante un’esibizione precipiti nel vuoto in cui ondeggia ogni sera. Forse che il padre rivolga quelle attenzioni troppo particolari non più solo alla sorella maggiore. O forse che il perpetuo girovagare da una città all’altra, da uno stato all’altro non abbia mai termine e che la casetta tanto sognata, in cui potersi finalmente fermare, non venga mai raggiunta.
La giovane protagonista osserva e riferisce con naturalezza e spontaneità le tragedie che si consumano nella sua vita, libera da toni moraleggianti e di condanna, ed affronta leggera temi come la morte, l’abbandono, la religione non senza una nota di mordace ironia, in una prosa semplice ed immediata, intensa e dirompente.

Chi è Aglaya Veterany?

Aglaya Veterany, la cui vita è stata paragonata a quella della Mignon goethiana, nasce il 17 maggio 1962 a Bucarest, in Romania. La piccola Aglaya ha un’infanzia diversa da tutti gli altri bambini: figlia di un clown e di un’artista, cresce all’interno di un circo e ne sperimenta la vita disordinata, seguendo i genitori in tournée attraverso l’Europa, l’Africa ed il Sud America. Ancora giovanissima comincia ad esibirsi in spettacoli di varietà. Il continuo girovagare di paese in paese non le permette di ricevere un’istruzione. Quando a quindici anni, nel 1977, arriva a Zurigo, è ancora analfabeta ed impara da autodidatta non solo a parlare una nuova lingua, il tedesco svizzero, ma anche a leggere e a scrivere. In Svizzera studia recitazione e dal 1982 è attiva sia come attrice che come autrice.

I suoi interessi spaziano in diverse direzione e lavora a svariati progetti ed iniziative: nel 1993 fonda, insieme allo scrittore René Oberholzer, il gruppo letterario sperimentale Die Wortepumpe, nel 1996 dà vita con il suo compagno Jens Nielsen, al gruppo teatrale Die Engelmaschine. Tiene inoltre numerose letture sia in Svizzera sia all’estero e parte dei suoi scritti vengono pubblicati all’interno di alcune antologie e riviste letterarie. Nel 1999 esce il primo vero romanzo di Aglaya Veterany: “Perché il bambino cuoce nella polenta” (“Warum das Kind in der Polenta kocht”). Il libro riscuote molto successo sia tra il pubblico che tra la critica e alla borsa di studio, ottenuta nel 1998 dal Literarisches Colloquium Berlin, prestigiosa società letteraria, seguono nel 2000 altri importanti premi letterari come l’Adalbert-von-Chiamisso-Förderpreis della fondazione Robert Bosch, il Kunstpreis Berlin ed altri riconoscimenti da parte della città e del cantone di Zurigo. Nonostante il successo e le molte soddisfazioni Aglay Veterany porta dentro un male di vivere che la spinge al suicidio. Il 3 febbraio 2002, a quasi quaranta anni, la scrittrice si toglie la vita in riva al lago di Zurigo. Il suo secondo romanzo “Das Regal der letzen Atemzüge”, scritto ancora prima della pubblicazione dell’opera d’esordio, esce postumo nello stesso anno ed ottiene numerosi consensi.
Nel 2004 viene pubblicato l’ultimo progetto a cui Aglaya Veterany stava lavorando prima della morte: si tratta di una raccolta incompiuta di racconti e frammenti letterari dal titolo “Vom geräumten Meer, den gemieteten Socken und Frau Butter”.
I pareri della stampa
Un piccolo romanzo di straordinaria leggerezza” Hans-Peter Kunisch, “Süddeutschen Zeitung”
“Il libro è ricco di magnifiche frasi che si potrebbero citare una dopo l’altra” Jan Faktor, “Freitag”
“Qui scrive un’autrice dall’alto della fune, io guardo dal basso e mi si blocca il respiro” Peter Bichsel
“Per Aglya Veterany la scrittura era una necessità esistenziale, un atto attraverso cui trovare se stessa, cercare il senso della vita e superare il dolore” Peter Mohr, http://www.literaturkritik.de/public/rezension.php?rez_id=5261&ausgabe=200209
“La Veterany scolpisce le sue frasi, ogni parola un monumento, gettata come una pietra che cade in profondità e forma cerchi nella coscienza del lettore” Ute Hallaschka, “Die Drei”
“Un debutto straordinario e brillante. La riuscita della storia è data dalla leggiadra danza sull’abisso, dal gioco con la paura, che viene esorcizzata e spiegata” Urs Bugmann, “Neue Luzerner Zeitung”

Le opere

Warum das Kind in der Polenta kocht. Stuttgart: Deutsche Verlagsanstalt, 1999. (trad. italiana di Emanuela Cavallaro, Perché il bambino cuoce nella polenta. Ferrara: Tufani Editrice, 2005)
Geschenke. Ein Totentanz. Mit Holzschnitten von Jean-Jacques Volz. Zürich: Edition P. Petrej, 1999.
Das Regal der letzten Atemzüge. Stuttgart: Deutsche Verlagsanstalt, 2002.
Vom geräumten Meer, den gemieteten Socken und Frau Butter. Geschichten. Stuttgart: Deutsche Verlagsanstalt, 2004.

Postfazione di Emanuela Cavallaro

Si sente la fatica, nelle frasi di Aglaja Veterany. Ma la fatica in senso positivo, la fatica dell’artista che lima e modella la lingua fino a trarne fuori il nucleo significante. Un nucleo puro, senza orpelli di sorta. Frasi laconiche, quasi senza aggettivi. E che tuttavia porgono il loro contenuto in forme spesso sorprendenti. Sarà il fatto che l’autrice scrive in una lingua che non è la sua lingua madre, una lingua di cui si è appropriata da sola, con fatica appunto, riflettendo a fondo sulle singole parole, considerandone ogni sfumatura di significato, e questo la porta a costruire le sue frasi combinando i vocaboli in una sua maniera peculiare, che conferisce ad ognuno di essi un’evidenza tutta nuova e particolare. Sarà anche la prospettiva del racconto, il punto di vista realistico insieme e magico della bambina, poi adolescente, che trasfigura la realtà in cui vive attraverso la rigorosa (a)logica infantile, offrendo qua e là momenti di gustosa comicità (indimenticabile l’immagine degli angeli nelle cabine di vetro che traducono per Dio da tutte le lingue). “Potevo scrivere solo così e in nessun altro modo” ha detto l’autrice in un’intervista. “Solo a partire dalla prospettiva della bambina sono stata in grado di raccontare tutto l’orrore e l’immoralità di questa storia”.
Sì, perché questa è una storia di orrori, di violenze, di paure. E di violenze della peggior specie, perché non vengono (o almeno non solo) da fuori, dagli “altri” – dai quali, viene inculcato alla bambina, bisogna guardarsi sempre e comunque – ma è anche e soprattutto dall’interno stesso della famiglia, da un padre i cui incesti si ripetono per generazioni, da una madre che fa incollare alla figlia, ancora troppo giovane per esibirsi nuda, un triangolino di pelo tra le gambe. Genitori carnefici che però vedono se stessi sempre solo come vittime – degli eventi, delle circostanze, della politica – e si ritengono in diritto di venire compatiti per il fallimento delle loro smisurate illusioni.
Ed è anche una storia sul terribile crollo di tutti i sogni e le illusioni, della protagonista come della sua famiglia, accompagnato dal crollo inesorabile della famiglia stessa. All’estero la mia famiglia si è spaccata come vetro. E’ una storia di spaesamento, di mancanza di punti di riferimento, un racconto sul sentirsi stranieri, sempre e dovunque. Qui ogni paese è all’estero.
E al centro di tutto, a metà strada tra una nonostante tutto amata “casa”, da cui la protagonista cerca mano a mano di emanciparsi, e un “estero” che, pur con tutte le sue stranezze e i suoi rifiuti, comincia a diventarle familiare, sta una bambina, poi adolescente, in preda a tutte le paure che una situazione del genere può generare.

Eppure, a dispetto del contenuto “pesante”, tutto questo viene raccontato in maniera apparentemente leggera e funambolica, del tutto priva di sentimentalismi o di autocommiserazione, anzi addirittura con ironia. Illuminando a tratti, con l’estrema precisione delle sue fasi laconiche, la realtà non solo familiare ma anche del paese d’adozione, l’autrice ne rende un quadro distorto ma allo stesso tempo estremamente fedele. E’ la funzione terapeutica della scrittura, che serve ad affrontare, per chiuderla, una fase della vita e riprendere energie per andare avanti. Aglaja Veterany scriveva in questo modo, per liberarsi dai fantasmi della sua infanzia. ma l’ironia aveva un fondo amaro, di chi va facendo capriole su una fune, mentre sotto si spalanca l’abisso. E alla fine Aglaja non ce l’ha fatta. Al circo la gente sorride morendo.

Luciana Tufani Editrice

www.tufani.it

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